29.8.10

l'uomo d'affari




I miei dubbi sulle modalità d'azione da intraprendere, uniti ai timori e all'inesauribile voglia di esplorare la relazione che si genera fra il pubblico e la percezione dell'Arte, sono stati amplificati, recentemente, da un viaggio in treno in cui chiacchierando con un uomo d'affari di mezza età, con un discreto panorama culturale alle spalle, diretto per lavoro da Firenze a Milano, dopo avermi chiesto cosa stessi studiando e in che modo avrei voluto utilizzare le mie conoscenze acquisite in ambito accademico nel "mondo reale", timidamente mi ha posto la seguente domanda:

"Ma in cosa consiste esattamente la differenza fra Arte Moderna e Arte Contemporanea? Esiste una differenza, vero? Non ero solito apprezzare l'arte così come mi era sempre stata presentata durante gli anni dell'obbligo scolare ed i diversi musei che ho visitato mi hanno sempre annoiato, ma un giorno, tramite un amico che lavorava nell'organizzazione, venni trascinato alla Biennale d'Arte di Firenze e devo ammettere che, con mia grande sorpresa, quell'arte esposta lì mi piaceva. Lo stupore fu immenso e l'interesse che ne derivò determinò un mio nuovo approccio a quel modo di "fare arte" che prima non avevo mai considerato".


Come negare un mio equivalente stupore nell'ascoltare una tale domanda, non tanto legato alla mera distinzione tassonomica soggetta tuttora a grandi dibatti, bensì a come due componenti di uno stesso mondo vengano al tempo stesso associate e distanziate impedendo una fruizione autonoma della categoria artistica in quanto tale.


Quell'arte gli piaceva.

Quella lì e non quell'altra.

Quell'altra lo annoiava, la trovava inutile e ripetitiva.

Mentre quella stimolava la sua riflessione, il pensiero, lo toccava più da vicino.

Quell'arte gli era più vicina, più prossima, contemporanea.


Perché erano diverse.

Perché c'era qualcosa che le allontanava reciprocamente.

Perché a scuola insegnano solo quel tipo di arte "che annoia" ed è quindi normale che poi i ragazzi non siano invogliati a proseguirne l'analisi altrove, uscendo dalle aule per recarsi nei musei o nelle diverse mostre organizzate qua e là.

Ma in fondo sono la stessa cosa.

Sono come due membri della stessa famiglia.

Due persone che, nonostante provengano da generazioni differenti, hanno lo stesso sangue che scorre nelle vene, sono fatte della stessa carne, si nutrono dello stesso cibo.


Come riuscire a spiegare che nell'una si cela il codice genetico e generativo dell'altra?

Come dimostrare che il genitore abbia ancora qualcosa di valido da dire nella direzione di una migliore comprensione del figlio?

Come avvicinare le definizioni e teorizzazioni sul panneggio e prospettiva a quelle su performance e installazioni?



Da grande voglio diventare Hans Ulrich Obrist.

Ma forse, dovrei iniziare dal nome.

Il mio, nonostante tutto, suona ancora troppo banale.

Soprattutto nel contesto della contemporaneità milanese.

Trasferendomi all'estero potrei assumere un'aura più esotica.